Il reshoring salverà l’industria europea?

Il rientro delle produzioni e delle catene di fornitura dall’Asia e dalla Russia verso aree più vicine ai mercati e strategicamente più affidabili potrebbe rallentare il declino dell’industria europea anche nelle home appliances.
|Photo: Shutterstock.

Di seguito un estratto dell’articolo apparso sul numero di gennaio-febbraio di Uptrade La versione digitale della rivista è disponibile gratuitamente su Apple Store, o Google Play. Altrimenti scaricala da qui.

Il 24 febbraio 2022, data di inizio dell’invasione russa in Ucraina potrebbe essere se non la data di morte della globalizzazione, certamente un punto di non ritorno. “La riapertura della spaccatura tra Est e Ovest in Europa ha catalizzato un ripensamento strategico iniziato addirittura prima della Amministrazione Trump, quando gli Usa si sono resi conto che avrebbero dovuto contendere con la Cina per la leadership globale”, esordisce Stefano Elia, docente alla School of Management del Politecnico di Milano. “Un numero crescente di multinazionali americane e occidentali si rendono oggi conto dei rischi e dei costi, e non più solo dei vantaggi, connessi alla delocalizzazione in certi Paesi”.

Italia seconda in Europa nel reshoring

Ha preso quindi velocità il fenomeno del reshoring vale a dire il ritorno delle attività industriali precedentemente delocalizzate. Un fenomeno che prende diverse forme: “parliamo di ‘backshoring’ quando l’attività delocalizzata viene riportata dove l’azienda ha la sua direzione; di ‘nearshoring’ quando è trasferita in un Paese più vicino alla sede o ai mercati e di ‘friendshoring’ quando è spostata in un Paese, non importa se lontano o vicino ma considerato strategicamente più affidabile”, elenca Elia che nella School of Management segue le strategie di investimento industriale delle multinazionali.

Elia e il suo gruppo di ricerca, RE4It, hanno intervistato nel 2021-2022 quasi 800 imprese europee sull’evoluzione dei loro investimenti industriali. “È emerso che 121 imprese avevano delocalizzato la produzione e il 16% di queste ha ‘rimpatriato’ parte della sua capacità produttiva, mentre il 12% ha dichiarato di volerla riportare in Italia nei prossimi 3-5 anni. Inoltre, il 21% delle 568 imprese che si approvvigionavano all’estero – cioè ben 120 imprese – ha attuato un backshoring delle forniture negli ultimi 5 anni, smantellando o ridimensionando i contratti con fornitori esteri e cominciando ad acquistare da imprese italiane”.

|

Stefano Elia ricercatore e docente presso la School of Management del Politecnico di Milano.

L’Italia è uno dei Paesi più impegnati nel re-horing. Secondo una analoga inchiesta svolta nell’ambito di un progetto della Commissione Europea fino al 2020, l’Italia, dopo la Francia, risultava il Paese con il più alto numero di casi di reshoring: 171 tra il 2000 e il 2020.

Quali sono le ragioni che portano una impresa a invertire il trend della delocalizzazione? “Sicuramente considerazioni strategiche”, risponde il docente del Politecnico di Milano. Quel che è accaduto lo scorso anno quando le imprese occidentali hanno dovuto quasi azzerare da un giorno all’altro il valore delle loro attività commerciali e industriali detenute in Russia o sostituire velocemente i fornitori ha reso attente alle considerazioni geopolitiche anche le imprese più concentrate sul breve termine. “A questa motivazione si aggiunge il ruolo della digitalizzazione e dell’Industria 4.0, che consentono di automatizzare processi intensivi di lavoro che prima venivano delocalizzati all’estero”.

Delocalizzare stanca

In primo luogo però “alcune delle ragioni che avevano portato alla delocalizzazione si sono attenuate, mentre i costi palesi e nascosti sono divenuti sempre più chiari”, come riassume il docente del Politecnico di Milano. Il costo del lavoro in Cina è cresciuto fino a lambire i livelli più bassi disponibili nell’Unione Europea. I noli marittimi, con la loro volatilità, introducono un elemento di incertezza nella struttura dei costi. Supply chain lunghe e complesse sono esposte a colli di bottiglia logistici che possono fermare la produzione o ridurre le vendite. Il ritorno dell’inflazione introduce un ulteriore elemento: l’intervallo fra la produzione in Asia e l’arrivo del prodotto sui mercati europei incide sul capitale circolante.

Non è semplice tornare indietro.

Ciò detto, rimpatriare le produzioni non è sempre facile. “Ogni aspetto del backshoring nasconde delle criticità”, sintetizza Elia. Dopo decenni di delocalizzazione l’economia italiana si è terziarizzata e questo “rende difficile reperire aree e strutture dove aprire attività industriali, reclutare operai specializzati o anche solo giovani disposti a lavorare in fabbrica, e soprattutto competenze specifiche a ogni livello: dalla manutenzione fino alla gestione manageriale di impianti industriali”. Anche per questa ragione “se parliamo di backshoring la strada più seguita e più probabile è quella del rimpatrio di alcune catene di fornitura”, sostiene Elia, mentre chi pensa di chiudere stabilimenti in Cina e riaprirli altrove preferisce Paesi che hanno mantenuto e anzi sviluppato una vocazione industriale solida quali Polonia o, fuori dalla UE, Serbia e Turchia che offrono un buon punto di equilibrio fra costi del lavoro, vicinanza ai mercati e preoccupazioni geopolitiche.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
In caso di citazione si prega di citare e linkare uptradebiz.it